Dal pelo sulle spalle alla giacca militare: la scalata della Germania
Da barbari delle foreste a leader economici d’Europa: come ha fatto la Germania a diventare la superpotenza che è oggi? Un viaggio improbabile tra cultura, guerre, filosofia e acciaio per capire cosa (forse) ci siamo persi noi.
VERITÀ VERE FINO AL CONTRARIO DIMOSTRATO
John Otto Frings
7/27/20255 min read


Ci piace pensare ai tedeschi come a quei signori ossessionati dalla puntualità, dal motore perfetto e da un’insana passione per l’ordine. Ma la verità è che, prima di diventare il motore industriale (e morale) dell’Europa, erano… barbari. Letteralmente. Tacito li descriveva come selvaggi virili, mezzi nudi e con l’ascia sempre pronta. Oggi sono quelli che decidono se noi italiani possiamo andare in pensione a 64 anni o no.
L’inizio: tribù disordinate ma piene di potenziale
Nel I secolo d.C., i Germani erano visti da Roma come il peggior incubo col mantello. Incolti, pagani, e con un’ossessione per la libertà che faceva impallidire anche gli Spartani. Ma avevano una dote: resistenza. Non si piegavano. E da lì, piano piano, iniziano a scrivere la loro versione della storia.
Il medioevo e la lunga attesa del concetto di “Stato”
Dal Sacro Romano Impero in poi (che, spoiler: era tutto tranne che “sacro”, “romano” o un “impero”), la Germania si frammenta in una miriade di principati. Mentre altrove si centralizzava il potere, i tedeschi facevano a gara a chi aveva la biblioteca più lunga. E, sorpresa, questa competizione accademica li ha resi centri culturali potentissimi.
Quando litigare per secoli produce cultura
Sì, il Sacro Romano Impero era un casino organizzato. Un puzzle con troppi pezzi: 300 stati, tra ducati, principati, vescovati e città libere. Nessuno comandava davvero, tutti volevano comandare un po’. Era come un condominio senza amministratore, ma con eserciti, tasse, dialetti diversi e un odio reciproco tutto sommato cordiale.
Mentre Francia e Inghilterra si centralizzavano, costruivano monarchie forti e si inventavano un’identità nazionale da bandiera e baguette, in Germania ognuno faceva per sé. E qui accade la magia.
Competizione accademica = fertilità intellettuale
Quando non puoi vincere sul campo di battaglia, provi a vincere con i cervelli. I piccoli stati tedeschi iniziano a competere su cultura, educazione e ricerca. Ogni principe voleva l’università più brillante, il teologo più progressista, il matematico più illuminato. La scienza diventa status symbol.
Nascono così istituzioni come:
Università di Heidelberg (1386)
Università di Jena, fucina del pensiero idealista
Università di Göttingen, patria della matematica moderna
Università di Berlino, fondata nel 1810, rivoluzionaria nel suo modello di “università di ricerca”
Queste università non sono parcheggi per figli di nobili: sono centri produttivi, luoghi dove si forma una nuova élite tecnico-scientifica, che poi alimenterà industria, burocrazia e apparato statale.
Da lì a Kant, Hegel, Fichte, Schelling… il passo è breve
È in questo humus che nasce l’idealismo tedesco, che farà da impalcatura intellettuale all’identità nazionale. La filosofia tedesca non è un hobby. È lo scheletro su cui poggia l’idea di Stato moderno.
Ogni Stato tedesco aveva la sua “scuola”, il suo filosofo da sfoggiare, il suo metodo educativo da difendere con orgoglio. Il pensiero si istituzionalizza. Diventa progetto politico, missione morale, investimento a lungo termine.
E il paradosso è questo: la forza nasce dal caos
Quella che all’apparenza sembra una debolezza (nessuna unità politica, 300 staterelli in lite continua), in realtà si trasforma in una ricchezza esplosiva. Più libertà accademica, più pluralismo, più spazio per sperimentare.
Se un’idea veniva censurata a Lipsia, trovava rifugio a Francoforte. Se un pensatore dava fastidio a Vienna, veniva accolto a Jena. La frammentazione diventa resilienza culturale.
E oggi?
Questa antica ossessione per la competizione culturale vive ancora. La Germania è il Paese con il maggior numero di biblioteche pubbliche in Europa. Ha un sistema duale di educazione che collega direttamente scuola e industria. Investe il triplo dell’Italia in ricerca e sviluppo. E non perché è più brava. Ma perché ha imparato prima quanto vale un'idea messa a sistema.
Bismarck, il ferro, il sangue e la nascita della potenza
Nel 1871 arriva l’unificazione. Bismarck, con uno stile degno di una rockstar nichilista, unisce tutto l’ambaradan sotto la bandiera prussiana. Nasce così l’Impero tedesco. E nel giro di pochi decenni, la Germania diventa una macchina industriale, scientifica e militare. Altro che barbari: adesso fanno concorrenza agli inglesi e mettono paura ai francesi.
L’incubo: due guerre e il sogno di superiorità
Nel Novecento, la cosa prende una brutta piega. Prima guerra mondiale, disastro. Seconda? Peggio. Il sogno di ordine diventa incubo totalitario. Il nazismo porta all’apice della perversione l’idea tedesca di efficienza. Sì, sono ordinati. Ma anche quando sterminano, purtroppo.
Dopo l’inferno: la resurrezione a colpi di export
Dopo il 1945, la Germania è a pezzi. Letteralmente. Ma la parte Ovest (quella fortunata) viene ricostruita con amore, dollari americani e senso pratico teutonico. Nasce il “miracolo economico”. Fabbriche, università, prodotti di qualità: i tedeschi ritrovano la strada, senza bisogno di stivali lucidi o svastiche.
L’Italia? Con lo stesso potenziale, ma con meno sistema
Perché noi no? Perché mentre loro facevano l’università statale performante, noi facevamo il liceo classico con le finestre rotte. La Germania ha creato un ecosistema dove pensiero, scienza e industria camminano insieme. Noi ci siamo fermati al genio individuale. Funziona, ma meno.
Mentre in Germania ogni ducato si faceva la sua università e coltivava filosofi come fossero piantine di basilico, l’Italia era impegnata in tutt’altro sport. Diciamo che, nel grande torneo della modernizzazione, l’Italia si presentava sempre con la sciarpa del Rinascimento… ma con la squadra del ‘400.
Vediamo cosa accadeva, in parallelo:
Italia: la culla della cultura... ferma al passato
Sì, abbiamo avuto Bologna, Padova, Napoli, tra le università più antiche del mondo. Abbiamo avuto Galileo, Leone X, il diritto romano, il Rinascimento, la pittura, la scultura, la poesia. Ma ecco il problema: ci siamo seduti sugli allori.
Mentre la Germania costruiva università per formare funzionari di Stato e innovatori, noi ancora parlavamo di Petrarca. Le nostre università erano centri di prestigio aristocratico, più vicini alla liturgia che al laboratorio.
Diritto, retorica e teologia: il tris che non ti porta all’innovazione
Il sapere in Italia era ancora dominato da:
il diritto (ottimo per avvocati e funzionari ecclesiastici),
la teologia (utile se volevi diventare cardinale),
la retorica (perfetta per discutere in latino senza dire niente).
E la scienza? L’esperimento? L’ingegneria? Roba marginale. Galileo viene condannato nel 1633, e non a caso: la cultura italiana è ancora profondamente clericale, diffidente verso l’empirismo e la ricerca autonoma.
L’assenza dello Stato (quello vero)
Mentre la Prussia capiva che educazione = potere, l’Italia era ancora un puzzle geopolitico:
Lo Stato Pontificio dettava legge da Roma.
Il Regno delle Due Sicilie arrancava nel Sud.
Il Piemonte ci provava, ma era piccolo.
Venezia, Firenze e Milano erano ormai repubbliche d’arte in pensione.
Senza uno Stato centrale forte, nessuno investe seriamente in educazione scientifica, in burocrazia razionale, in ricerca pubblica. L’università italiana non si rinnova. Le scuole restano elitarie, teoriche e distanti dalla società.
Cultura umanistica vs. cultura statale
Mentre il pensiero tedesco sviluppava concetti come Staat, Volk, Pflicht (dovere), e si interrogava sul rapporto tra individuo e società, in Italia ancora si discuteva di virtù rinascimentali, belle lettere, oratoria.
La differenza? In Germania la cultura diventa motore di potere politico e industriale. In Italia resta monumento, passato, memoria.
E poi arriva il 1861. L’Italia si unifica. Ma la Germania... è già una macchina.
Quando finalmente anche noi abbiamo un tricolore, la Germania ha già una rete ferroviaria che collega le sue industrie. Ha già un sistema scolastico che produce scienziati. Ha già il modello Humboldtiano di università moderna. Ha filosofi di Stato e ingegneri in giacca e cravatta.
L’Italia? Ha un Sud analfabeta, un Nord che cerca di arrangiarsi e una classe politica più impegnata a distribuire poltrone che a costruire infrastrutture cognitive.
In sintesi?
La Germania usa la cultura per fare potere. L’Italia usa la cultura per raccontarsi quanto era bella una volta.
Una differenza che, se non la recuperi, ti si ripresenta a ogni finanziamento europeo, ogni bando sulla ricerca, ogni classifica OCSE, ogni startup che apre a Berlino e non a Palermo.
E non si risolve con una mostra su Caravaggio.
Cultura come progetto di potere
La Germania moderna è il risultato di una pianificazione spietata. Dove la cultura è sia intrattenimento che una leva di soft power. Dove l’università è laboratorio statale, e la filosofia non è solo materia da maturità. Quando Nietzsche diceva “diventa ciò che sei”, la Germania ci ha creduto.
Conclusione aperta (ma solo per chi sa leggere tra le righe)
La Germania non è superiore per genetica, ma per strategia. Perché ha saputo trasformare il trauma in sistema, la cultura in motore e l’identità in progetto. Noi? Noi abbiamo ancora un potenziale enorme. Ma finché pensiamo che essere intelligenti significhi solo “essere svegli”, continueremo a lamentarci mentre loro producono, brevettano e vendono a noi le cose che vorremmo inventare.
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