Mollare è bellissimo. Finché non ti accorgi di quanto ti costa.
Mollare dà sollievo, ma spesso è l’inizio della fine. Un articolo su dipendenze, fallimenti e su quanto costa davvero lasciarsi andare.
DEMOTIVATIONAL
Adil Abid
6/4/20252 min read


C’è quel momento. Sempre.
Quello in cui dici: basta.
Mollo.
E la cosa più inquietante è che... stai bene.
All’improvviso si dissolve l’ansia, svanisce la pressione, si abbassano le aspettative.
Il cuore rallenta, la mente si allenta.
Per un istante — che può durare un’ora, un mese o una vita — ti senti leggero.
Quasi felice.
È il sollievo della resa. L’anticamera della disfatta.
Il primo respiro profondo dopo una guerra con te stesso.
Mollare è un po’ come lasciarsi andare in acqua: smetti di combattere, ti lasci galleggiare, e per qualche secondo pensi: "Che bello, così."
Poi cominci ad affondare.
Ma dolcemente. Quasi con eleganza.
A quel punto subentra il secondo atto della resa: l’abuso.
Qualcosa che ti anestetizzi. Cibo, alcol, Netflix, dating compulsivo, gratta e vinci, scroll infinito, lavoro tossico, panchine della domenica.
Tutti perfetti sostituti della lotta, tutti ottimi sedativi dell’ambizione.
Inizia così. Con “una volta sola”.
E ti svegli anni dopo senza più forza, senza più pettorali, con la panza emotiva di chi ha confuso il sollievo con la libertà.
Le dipendenze non sono buchi. Sono scivoli.
Scivoli ben lubrificati su cui la mente si lancia pur di non affrontare il vuoto.
Non cadi perché sei debole. Cadi perché sei umano.
Perché nella nostra società il fallimento non si interpreta, si nasconde.
Il dolore non si ascolta, si zittisce.
Il disagio non si accoglie, si evita.
Viviamo ossessionati dai risultati.
Solo che non è quello il punto.
La vita — quella vera, faticosa, meravigliosa, piena — succede nel percorso.
Quello fatto di tentativi maldestri, progressi impercettibili e tonfi imbarazzanti.
Ma noi no.
Vogliamo la performance. Il prima e dopo. Il successo virale.
E nel frattempo ci perdiamo il mentre.
Ci perdiamo quella frizione interiore, quella resistenza che, come quando fai la panca piana con 70 kg e il petto trema, è proprio quella che ti costruisce.
Il fallimento fa parte del gioco.
Solo che nessuno ce lo ha mai spiegato davvero.
Non abbiamo un linguaggio per parlarne, figuriamoci per attraversarlo.
Chi sbaglia è un perdente. Punto.
Non c’è spazio per la fatica senza payoff, per il dolore senza storytelling, per la crisi senza un lieto fine da postare.
E allora molliamo.
Perché se non ce la fai, vuol dire che non sei tagliato.
Se soffri, vuol dire che sei rotto.
Se perdi, sei fuori.
Ma forse la verità è un’altra.
Forse chi tiene duro, chi resta, chi si siede nel mezzo del casino e dice “Ok, ci sono”,
non è solo testardo: è libero.
Perché chi accetta la fatica come parte del processo non ha più bisogno di fuggire.
Non ha bisogno del sollievo dell’abbandono, né della droga dell’evasione.
Ha imparato a convivere con quel sottile dolore muscolare dell’anima,
quella tensione costante che non ti distrugge, ti plasma.
La dipendenza inizia dove finisce il significato.
Quando non capisci più perché lo fai, molli.
Quando molli, ti anestetizzi.
Quando ti anestetizzi, smetti di costruirti.
E quando smetti di costruirti, non fallisci più.
Semplicemente, smetti di esistere.
Non abbiamo soluzioni miracolose.
Nessuna scorciatoia. Nessuna formula motivazionale da infiocchettare in un carosello su Instagram.
Ma forse possiamo iniziare a fare qualcosa di più potente: restare.
Restare quando fa male.
Restare quando tutto dice “scappa”.
Restare quando il percorso sembra inutile, lento, insensato.
Perché, alla lunga, è lì che si costruisce la differenza tra chi si ferma e chi diventa.
E se domani cadi di nuovo, va bene.
Ricomincia.
Risentirai la frizione.
E lì, esattamente lì, starai crescendo. Anche se fa schifo. Anche se non si vede.
Anche se nessuno applaude.
La vera libertà non è mollare.
La vera libertà è scegliere di restare anche quando sarebbe più facile lasciar perdere.
Ma prima, magari, prenditi un attimo per respirare.
Non per mollare.
Per ricordarti perché hai cominciato.
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